L'agguato

Fatta buona caccia, oggi.
Sguscio fuori dall’erba e mi incammino sulla strada. Non mi piace, la strada: tante piccole pietre dure che ti pizzicano le zampe come le formiche quando pesti una loro tana. Lo diceva sempre anche la mamma. Però poi deve aver cambiato idea. Deve esserle davvero piaciuta tanto, la strada, perché un giorno ci è andata e non è più tornata.

Salto la siepe che gli uomini hanno messo tutto intorno alla loro grande tana. Sono davvero strani, gli uomini. Fanno crescere il ferro come le piante, vivono in tane che non cadono col vento e riescono a stare sulle zampe posteriori tutto il tempo senza stancarsi. Ma la cosa più strana è come si facciano ogni giorno mangiare da grosse bestie di ferro che ruggiscono come il tuono e corrono come il vento sulla strada, che poi li vomitano per mangiarli di nuovo. Devono essere davvero indigesti, gli uomini. Come le interiora e le ossa di un topo.
Mi avvicino all’entrata della tana e lascio andare la lucertola che stringo tra i denti. Non sono molto buone, le lucertole, con tutte quelle scaglie. Anche l’umano che vive nella grande tana le odia. Si arrabbia sempre tanto quando gliene porto una. E si arrabbia ancora di più quando gli porto un topo, o un uccellino. Non sa davvero cosa si perde.
Ho fame. Molta fame. Tantissima fame. Quei due topolini che ho beccato vicino al fosso non mi hanno riempita neppure per un quarto. 
Entro nella tana dell’umano e mi avvicino alla ciotola. E’ vuota. Ma tanto so che quando ho fame posso sempre contare su di lui. Ha quel sacchetto da cui non smettono mai di uscire cose buone. Basta miagolare e lui mi riempirà la ciotola. E’ strano, ma gli uomini sono strani. Però mi piacciono, salvo quando mi chiudono in una gabbia e mi portano in un posto freddo dove mi fanno male dicendo di farmi del bene. Davvero strani, questi umani.

Ehi! Ehi! Ho fame! Dammi la pappa! Su!

L’umano non c’è. Il sole è ormai a metà nel cielo e lui non è qui a darmi la pappa. Non capisco. E’ strano. Strano perfino per lui. Che la grande bestia di ferro l’abbia divorato ancora? Poteva almeno aspettare di darmi da mangiare. 
Potrei sempre uscire di nuovo e tornare a caccia, ma è faticoso, e mi viene ancora più fame. Lecco la ciotola, cercando di raccogliere fino all’ultima briciola di quei sassolini marroni così buoni che l’umano chiama “crocchette”. Il mio stomaco brontola, come se una preda non ancora digerita si stesse dimenando per uscire. Sì, lo so, stomaco. Ho fame anche io. E leccare la ciotola non è certo come…

Aspetta un momento. C’è qualcosa di strano. Un sapore, un odore diverso… Non mio. Qualcun altro ha mangiato dalla mia ciotola. E so fin troppo bene chi è stato.

Sento ogni pelo dalla testa alla coda rizzarsi. Mi guardo intorno, setacciando l’oscurità che si apre davanti a me come l’erba durante la caccia.

Dove si è nascosta, quella maledetta?
Qualcosa si muove sul divano. E’ lei, non c’è dubbio. Sembra stia dormendo: vedo la sua pancia alzarsi e abbassarsi. E’ sdraiata sul mio cuscino preferito, sul mio divano preferito. Come osa?
Come osa entrare nel mio territorio, prendersi il mio cibo, il mio spazio, respirare la mia stessa aria? 

Adesso te la faccio vedere io!

Sembra che non si sia accorta che io sia qui. La prenderò di sorpresa. Mi appiattisco a terra e le mie orecchie si drizzano, cercando di isolare il rumore del suo respiro. Non è facile, con il baccano che fanno tutte quelle strane scatole che l’umano tiene nella sua tana. Una in particolare è davvero fastidiosa col suo continuo tic, tac, tic, tac, tic, tac. Non capisco a cosa gli serva. Non da’ cibo né acqua. E’ assolutamente inutile. 
Con un balzo sono sul divano. Continua a dormire profondamente, ignara, senza neppure tenere un occhio aperto. Che stupida! 

Dormi, dormi…

Sento i muscoli delle zampe posteriori farsi rigidi, pronti a scagliarmi addosso alla mia preda. I miei artigli affondano nella superficie del divano. Muoio dalla voglia di rifarmi le unghie, ma prima il dovere e poi il piacere.
 
Sei mia!

“Puffy! Lascia stare micia!”

L’umano!  

Lei spalanca gli occhi e inarca la schiena, gonfiando la pelliccia fino a farla sembrare un grosso riccio.

Vai via! Vai via!” grida.

“Vattene via tu! Questa è casa mia!” grido ancora più forte, sfoderando gli artigli. 

E lei grida ancora. Ancora più forte.
E io rispondo gridando ancora più forte; fortissimo.

“Puffy! Micia! Basta!”

L’umano si piazza in mezzo a noi e lei, da vigliacca, scappa. 

“Cattiva Puffy! Cattiva!”

Ma è lei che ha iniziato! Ha mangiato la mia pappa! E tu non l’hai protetta a dovere! Sei sempre dalla sua parte!

Salto giù dal divano e vado a nascondermi. Stupidi umani! Cosa ne vogliono sapere, loro, della lotta per il territorio o per il cibo? Con le loro tane che nessuno gli può occupare e i loro sacchetti sempre pieni di crocchette quando hanno fame! 
Non mi vedrai mai più!
*
“Ehi Puffy! Vuoi un po’ di latte?”

D’accordo, mangerò per questa volta, ma solo perché poi potresti offenderti e non darmene più.

L’umano si siede sul suo strano ramo di legno quadrato che chiama “sedia”. Davvero strani, questi umani. Si apollaiano su un ramo, ma non sono uccelli e non volano. Ti danno il latte, ma non hanno il pelo come la mamma. Non vanno a caccia, eppure sembrano sempre avere sempre la carne. E come faranno poi a lottare contro le grandi bestie di ferro, senza artigli ne’ zanne?

“Ehi Puffy! Vieni un po’ qui, dai.”

Mi invita sulle sue ginocchia. Dopo il cibo è tempo per le coccole. Forse l’ho giudicato male. Alla fine è dalla mia parte, non può fare a meno di me. 

“Brava Puffy, brava.”

Mi stai arruffando tutto il pelo. Ma… non importa. Tanto poi lo rimetto a posto.
Le sue dita corrono su e giù per la schiena, mi impastano le guance, mi grattano il mento, scendono fino alla pancia. Le fusa mi sgusciano fuori dalla bocca una ad una.

Mamma…

“Miaooo! Ehi! Ho fame!”


Spalanco gli occhi. Non posso crederci! Ancora lei!
 
“Oh hei, micia! Adesso ti do’ da mangiare… un momento. Puffy, dai, fammi alzare. Ahi! Ehi! Tieni a posto le unghie!”

Oggi penso che farò davvero la cattiva…

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